Il piccolo Picì
Giada Rossi
In un albero cavo, nel centro di un bosco di aghifoglie e conifere, un batuffolino grigio e spennacchiato, aveva emesso da pochi giorni i suoi primi pigolii.
I suoi genitori lo amavano teneramente e lo trattavano come il loro tesoro più prezioso.
Il piccolo, che aveva nome Picì, passava la maggior parte delle giornate sonnecchiando, sotto il caldo piumaggio della mamma, cullato dal dolce suono del cuore di lei; ma un giorno che il sonno non riusciva a coglierlo, curioso, spinse il musino fuori dal suo soffice riparo.
Il cielo era una volta buia e profonda, di diverse gradazioni di blu scuro; mentre le nere sagome degli alberi, con i loro rami contorti, disegnavano un intricato merletto, che faceva da cornice al cielo, in un originale teatrino delle ombre.
Appena i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, il firmamento parve brillare, acceso d’incanto da una miriade di puntini luminosi che, come un manto di rugiada, donavano a ogni cosa riflessi argentati.
Il piccolo osservò il cielo, incantato da tanto splendore.
«Mamma, cosa sono quelle luci in alto?», chiese.
«Sono le anime dei nostri antenati, è dove andremo tutti una volta trascorsa la nostra vita terrena», rispose lei.
«Sono le anime dei falchi?», chiese sorpreso il piccolo.
«Non solo tesoro, sono le anime di tutti gli esseri che hanno vissuto sulla nostra bellissima terra», rispose lei.
«Anche quelle dei tassi?», domandò il falchetto, spalancando gli occhi dallo stupore.
«Si, mio caro».
«E dei lupi? E dei conigli? E anche degli uomini?», continuò lui.
«Si, si è così», rispose paziente la madre.
Il piccolo era emozionato e perplesso al tempo stesso.
«Ma perché vanno tutti lassù, così in alto e come fanno?», insistette il cucciolo.
E la mamma sorridendo gli rispose:
«Le anime possono volare senza bisogno di ali. Lassù tutte le anime diventano una, in un’apoteosi di amore, dove tutto è uno. Quando imparerai a volare, se sarai in grado di ascoltare, non con le orecchie, ma con il cuore, allora potrai sentire quando scendono per starti accanto e volare insieme a te».
Il piccolo falchetto vibrava di eccitazione. Presto le sue ali sarebbero state belle e forti come quelle dei suoi genitori, e allora avrebbe solcato l’orizzonte, cavalcando il vento.
Un giorno in cui da lontano si sentivano le prime avvisaglie di un temporale in arrivo, i suoi genitori decisero di uscire insieme a cercare del cibo, nel caso la pioggia li costringesse a restare nel nido per il resto della giornata.
Il piccolo rimase da solo ad aspettare il ritorno dei genitori, mentre rimirava le grandi nuvole nere che in lontananza rombavano e si agitavano, come un animale inquieto.
D’un tratto sentì uno scalpiccio ai piedi dell’albero; si sporse per individuare la fonte del rumore e tra le fronde, vide due uomini con dei lunghi e lucidi bastoni sulle spalle, che passeggiavano seguiti da un cane, che col grosso naso odorava in ogni dove. Quando sparirono alla sua vista, si ritirò all’interno del nido, perché si era alzato un forte e gelido vendo. Il temporale si faceva sempre più dappresso e violenti boati squassavano il cielo; quando quelli che gli parvero, i due tuoni più forti e acuti che avesse mai sentito, esplosero in vicinanza, perforandogli le orecchie e il cuore. Spaventato si ritirò nell’angolo più riparato del nido, si accoccolò, appoggiandosi alla confortante familiarità della corteccia del vecchio albero, e nascondendo il piccolo becco tra le piume si addormentò, in cerca del riparo dalla paura che solo l’oblio del sonno può dare.
La mattina si svegliò con un intenso profumo di muschio che saturava l’aria. Si guardò intorno alla ricerca dei suoi genitori, ma nel nido era solo e non li trovò nemmeno sui rami dell’albero adiacenti all’entrata della loro dimora. Cadeva una pioggerellina intensa, ma leggera; come se dal cielo si tendessero fino al terreno, finissimi filamenti lucenti, simili a quelli della tela di un ragno ricoperta di cristalli di brina. Il ticchettio insistente della pioggia sulle fronde degli alberi cancellava ogni altro rumore, e dava l’impressione che qualsiasi altro suono nel mondo si fosse spento, facendolo precipitare in un silenzio irreale.
Il piccolo Picì aspettò il ritorno dei genitori guardando la pioggia per molte ore, con il pancino che gli si stringeva dalla fame, finché non si addormentò nuovamente.
Il giorno seguente il cielo era terso e un sole splendente brillava nel cielo, scaldando l’aria che un flebile vento trasportava, avvolgendo in un tiepido abbraccio tutti gli abitanti del bosco.
Ma il cucciolino non si mosse dal suo giaciglio. La vita fuori dal nido non aveva per lui più alcun interesse. Richiuse gli occhi abbandonandosi alla consolazione di sogni felici, nei quali immaginava di volare con i suoi genitori.
Due giorni dopo a notte fonda, fu svegliato da delle voci che parlavano concitatamente vicino all’apertura del suo nido. Nel suo stato di prostrazione le sentiva come se provenissero da molto lontano, da un altro tempo, da un’altra vita, e desiderava solo che tacessero.
A fare quel gran baccano erano un assiolo e un pipistrello.
«Tornatene nella tua grotta, è da giorni che sorveglio questo nido per vedere se ci abita qualcuno e visto che è abbandonato, da oggi è mio», disse l’assiolo.
«Ma sono arrivato prima io, e dunque di diritto spetta a me», replicò il pipistrello.
Iniziarono a spintonarsi, cercando di entrare uno prima dell’altro all’interno del nido e facendo un gran groviglio; quando il piccolo falchetto che dormiva in un angolo, sospirò nel sonno, attirando l’attenzione dei due contendenti, che si bloccarono di colpo.
L’assiolo tirò un urlo «AIUTO UN FALCO, SI SALVI CHI PUÒ!», gridò, cercando di liberarsi dall’intreccio per scappare terrorizzato.
«Ma non vedi che è solo un cucciolo?», disse il pipistrello, districandosi e zampettando fino al piccolo addormentato. «Non sembra stare molto bene», osservò.
«Tanto meglio. Un falco in meno in circolazione», disse l’assiolo, fermo all’ingresso del nido.
Il pipistrello si girò a guardarlo con occhi scintillanti e disse:
«Un falco per amico… Potrebbe proteggerci da molte grane».
Appena il concetto prese forma nella mente dell’assiolo, anche i suoi occhi iniziarono a brillare.
Cercarono di svegliare il falchetto. Lo scossero, lo chiamarono, lo agitarono; ma invano; il falchetto non voleva aprire gli occhi e tornare alla realtà. Il pipistrello e l’assiolo iniziarono a domandarsi se fosse morto; ma tutti quegli scossoni avevano risvegliato lo stomaco del piccolo, che emise un gran suono di protesta per i troppi giorni di digiuno.
I due ex nemici, ora compari, si procurarono tutto il cibo che poterono trovare e dopo molti sforzi, riuscirono a far mangiare un poco il piccolo falco. Passarono i giorni e il cucciolo si limitava a stare fermo tutto il giorno in un angolo del nido, senza mai parlare, mangiando poco e solo dopo molte insistenza dell’assiolo e del pipistrello, che ormai si erano trasferiti a vivere insieme a lui nel nido all’interno dell’albero cavo. I due compari senza accorgersene avevano finito per affezionarsi a quella piccola anima triste, e cercavano in tutti i modi di stimolare il suo interesse e farlo reagire, senza però ottenere alcun successo.
Una sera il pipistrello e l’assiolo stavano appollaiati su un ramo vicino all’ingresso della loro casa.
«Guarda che serata», disse il pipistrello, «guarda che stelle».
«Qualcuno dice che sono le anime degli esseri che hanno terminato la loro vita sulla terra; sono davvero magnifiche», disse l’assiolo.
E rimasero a rimirare incantati la volta celeste, finché non si accorsero che accanto a loro c’era il piccolo falco. Era uscito dal nido e guardava a sua volta il firmamento con i grandi occhioni spalancati, in cui si riflettevano le miriadi di stelle. I due si scambiarono degli sguardi stupiti, tornando poi a osservare il falchetto, senza avere il coraggio di proferire parola, per la paura di rompere l’incantesimo che era riuscito a scuotere l’interesse del cucciolo.
Da quella notte, il piccolo iniziò a mangiare regolarmente e abbondantemente. I suoi due tutori erano esterrefatti per il repentino cambiamento. Ora il cucciolo era sempre in movimento, parlava in continuazione, facendo miriadi di domande su qualsiasi argomento, la sua sete di conoscenza non aveva limiti. La sera i due adulti lo istruivano sulle cose del mondo e giocavano con lui, mentre di giorno dormivano tutti e tre rannicchiati uno accanto all’altro; e a nessuno creava problemi che il pipistrello russasse come un trombone.
Pian piano, il falchetto, il pipistrello e l’assiolo, si tramutarono in una vera famiglia, la più strana che si fosse mai vista nel bosco.
Il piccolo crebbe velocemente e arrivò il momento delle prime lezioni di volo. I suoi tutori si atteggiavano a grandi istruttori professionisti e il falchetto era emozionatissimo, vibrante di eccitazione.
Il primo lancio si tramutò in una rovinosa caduta. Il secondo in una lieve planata. Il terzo fu un successo, il piccolo falco riuscì a prendere quota e a tornare al nido senza nessun incidente. Al quarto era già diventato un esperto volatore.
I giorni si susseguirono, così come il passare delle stagioni e da cucciolo Picì si tramutò in un elegantissimo falco adulto.
Un giorno mentre dalla cima di un albero scrutava l’orizzonte, vide Ena per la prima volta. Volteggiava con grazia e maestria nel vento, giocando con le correnti ascensionali, andando poi a posarsi con delicatezza sul ramo di un pino, vicino all’albero dal quale lui la osservava affascinato. Fu amore a prima vista.
Due settimane dopo Picì e Ena trovarono un nido dove poter abitare insieme. L’assiolo e il pipistrello trattenevano a stento le lacrime al momento dei saluti, anche se la nuova dimora di Picì si trovava solo a venti alberi di distanza dall’albero cavo.
Tra i due innamorati però, ben presto l’armonia si ruppe. Ena desiderava avere dei cuccioli, ma Picì, memore della sofferenza che aveva provato, quando i suoi genitori non erano più tornati a casa, e si era sentito solo al mondo, non riusciva a concepire di creare una nuova vita, quando questa avrebbe potuto dover sopportare i tormenti della separazione e della solitudine che aveva dovuto patire lui.
Picì si chiuse in se stesso, in una bolla di tristezza, incapace di comunicare alla sua compagna i suoi pensieri.
Una notte, come sempre più spesso avveniva, Picì uscì da solo a volare, mentre Ena rimaneva nel nido. La luna non aveva fatto capolino dall’orizzonte quella sera, così le stelle, non abbagliate dalla sua luce, erano le sole a risplendere nel firmamento; miriadi e miriadi di stelle. Il giovane falco, si lasciava trasportare dalle correnti, facendosi cullare dal tiepido vento. Triste, piangendo per ore e ore. D’un tratto con dei forti battiti delle ali Picì salì di quota, sempre più in alto, sempre più in alto, come a voler raggiugere le stelle che da lassù sembravano osservarlo. Arrivò al culmine della salita, poi richiudendo le ali, si lasciò cadere in picchiata, a occhi chiusi, come una stella cadente.
Non provava paura. Inaspettatamente le sue sensazioni si amplificarono e si ampliarono, facendogli dimenticare i confini del suo corpo. Non era più solo un falco, era il vento che lo accarezzava, era l’etere intorno ad esso, era la terra che velocemente gli correva incontro. Vita e morte si mescolarono e ricomparvero alla sua memoria ricordi ormai sopiti dal tempo.
Si rivide cucciolo, con il corpo piccolo e spennacchiato. Rimembrò i suoi genitori e il loro amore, ricordò come il mondo gli sembrasse grande e magnifico e gli tornarono alla mente le parole che sua madre gli aveva detto in quella lontana notte d’estate. Quelle parole che, quando niente per lui aveva più importanza, gli avevano restituito la voglia di vivere. Non ci aveva più ripensato dalla sera in cui aveva guardato le stelle insieme all’assiolo e al pipistrello, in un tempo che sembrava un’altra esistenza.
‘Le anime possono volare senza bisogno di ali. Lassù tutte le anime diventano una, in un’apoteosi di amore, dove tutto è uno. Quando imparerai a volare, se sarai in grado di ascoltare, non con le orecchie, ma con il cuore, allora potrai sentire quando scendono per starti accanto e volare insieme a te.’
Si ripeté quella frase nel cervello come un mantra.
«Ascoltare con il cuore», si disse.
Una scarica elettrica lo percorse in ogni centimetro, dal becco fino alla coda. Di colpo spalancò le ali arrestando la caduta, scegliendo la vita. La vita che i suoi genitori gli avevano donato. Si sentì uno sciocco per aver pensato anche solo per un secondo di sprecarla.
Restò a volteggiare sospeso sopra le cime degli alberi, sorpreso di sentirsi d’improvviso sereno, in pace. Aveva capito che sua madre aveva ragione; che i suoi genitori lo amavano e che niente li avrebbe mai potuti tenere lontani da lui. Doveva solo imparare ad ascoltare.
Il vento ai suoi lati iniziò a modificarsi, ad assumere forme e colori, Picì si guardò intorno e non si sorprese quando accanto a lui vide volare i suoi genitori che gli sorridevano. I loro corpi erano incorporei e brillanti come le stelle. In alto nel cielo si accorse che con loro veleggiavano migliaia di altre anime di tutti i colori dell’arcobaleno, di tutte le forme e nessuna. Ebbe la conferma di quello che aveva già compreso, non era mai stato solo.
Quando iniziò ad albeggiare iniziò a sentire il desiderio impellente di tornare al nido, da Ena. Le anime dei suoi genitori allora si dissolsero con un bacio, ma Picì sapeva che anche se non era in grado di vederle, erano ancora lì con lui. Non si sarebbe mai più sentito solo in vita sua.
Tornato al nido trovò Ena addormentata, la svegliò delicatamente e le disse che avrebbero dovuto avere presto dei cuccioli, tanti cuccioli. Perché il dono della vita era il regalo d’amore più grande che si potesse fare. Così la primavera successiva nel folto del bosco, tre nuovi nati emisero i loro primi pigolii, circondati dall’amore dei loro genitori che non avrebbe mai avuto fine.