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FIABE


Alice, la guardian
Stella

Il mio nome è Alice, ho dodici anni e sono una guardian. A noi guardian è dato il compito di gestire l’ingresso nel mondo degli umani, degli esseri magici; e siamo un po’ dell’uno, un po’ dell’altro. Né completamente umani, né completamente esseri magici. Guardiani, controllori. Assolviamo più o meno alla stessa funzione del tizio che all’aeroporto vi controlla i passaporti e appura che tutti i vostri documenti siano in regola; ma siamo anche il poliziotto che, nel caso cercaste di entrare illegalmente nel paese, ve lo impedirebbe bloccandovi con la forza, beh nel nostro caso, con la magia.
In verità visto che ho solo dodici anni, il mio compito principale al momento è solo quello di andare a scuola e non cacciarmi nei guai. Ma a volte non è facile per me cercare di passare per una bambina normale, quando casa mia è un porto di frontiera, con creature che vanno e che vengono, materializzandosi in ogni angolo dell’abitazione. Non ho mai potuto fare una festa o invitare qualche amico per fare i compiti. Anche se il problema in verità non si è mai presentato, perché cambiamo casa talmente spesso, che non faccio mai in tempo a legare con nessuno.
Riflettevo sulle mie sfortune, mentre camminavo per rientrare a casa dopo una giornata di scuola, quando una voce mi chiamò dall’altra parte della strada.
«Adanedhel, aspetta!». Era Daniele D’este un mio compagno di scuola. Dopo aver controllato che non ci fossero macchine in arrivo, attraversò la strada correndo, per raggiungermi sul marciapiede, dal lato opposto.
«Ciao, dove stai andando?», disse, fermandosi davanti a me.
Rimasi di stucco, eravamo nella stessa scuola da due settimane, ma finora non ci eravamo mai scambiati più di un ‘ciao’ per i corridoi. Cosa poteva volere?
«Sto tornando a casa», risposi perplessa.
«Posso accompagnarti?». Dici sul serio? Pensai.
«Certo», dissi invece. Mi fece un sorriso che ricambiai e ci avviamo lungo la via.
I miei genitori mi avevano categoricamente proibito di fare entrare qualsiasi estraneo in casa, ma pensai che non avrei infranto nessuna regola facendomi accompagnare solo fino all’uscio. Ero troppo entusiasta di poter passeggiare e chiacchierare con un mio coetaneo, per lasciarmi sfuggire l’occasione di fare finalmente amicizia con qualcuno. Ammetto di essermi lasciata influenzare anche dal fatto che Daniele fosse molto carino.
«Non ti si vede mai in giro dopo scuola!», disse lui, scrutandomi con la coda dell’occhio. Per forza, pensai, dopo scuola ho altre due ore di lezione in casa con la professoressa banshee su: storia del popolo magico e magie difensive di primo livello.
«Già», risposi, «sono sempre molto impegnata con lo studio».
Dopo un attimo di silenzio Daniele chiese: «Certo che Adanedhel è un cognome davvero particolare, di dove è originario?». Adanedhel significa uomo elfo: la maggior parte dei guardian ha questo cognome o uno che deriva da questa parola; ma a lui certo non potevo dirlo.
«Boh, mi pare irlandese o scozzese», risposi evasiva, «ma chiamami pure per nome».
Lui mi fece un ampio sorriso, al quale era impossibile non rispondere con uno altrettanto grande.
Chiacchierammo allegramente della scuola e dei nostri compagni per tutta la strada. Quando arrivammo davanti alla porta di casa mia ci salutammo e io la varcai tutta emozionata. Forse per la prima volta in vita mia mi stavo facendo un amico. Gongolando tra me e me mi diressi verso la sala di “accettazione e transito”, la stanza dove lavoravano i miei genitori, per salutarli prima di andare a lezione nello studio, dove probabilmente la professoressa banshee mi stava già aspettando. Quando aprii la porta fui investita dal solito gran trambusto. I miei stavano seduti alle loro scrivanie. Mia madre stava gestendo la pratica di un auguriello: un folletto paffuto con i piedi rotondi a forma di zoccolo e la testa ricciuta; mentre mio padre quella di un goblin con il naso adunco e le orecchie appuntite, che sembrava avere molta fretta, perché continuava a sbuffare e ad alzare gli occhi verso il soffitto con aria contrariata. Nel resto della stanza, che fungeva da sala d’aspetto, sedevano sulle lunghe panche: un paio di elfi, quattro fatine, due pixie e un bogie: sotto l’aspetto di un grosso cane dal pelo nero, semi trasparente. Mentre aspettavo che i miei genitori notassero la mia presenza, in una nuvola di tenebra, una lamia si materializzò dal lato opposto della stanza. Subito il sangue mi si gelò nelle vene. Non ne avevo mai vista una prima d’ora, ma avevo studiato abbastanza sul loro conto per riuscire a riconoscerne una all’istante e a mettermi immediatamente sul chi vive. Era vestita con un lungo mantello del colore della notte e un abito informe grigio topo. Gli occhi infossati e crudeli si spostarono a perlustrare la stanza sondandone ogni centimetro, fino a posarsi su di me con fare curioso. Mi sentii rabbrividire. Sapevo che le prede preferite di questa specie di streghe erano proprio i ragazzini come me. Distolsi immediatamente lo sguardo, mentre una goccia di sudore mi solcava il viso dalla tempia destra fino al mento. Non ci tenevo proprio a diventare il suo pasto. Sperai che i miei genitori non le dessero il permesso di accedere al mondo umano. In quel momento l’auguriello balzò giù dalla sedia stringendo tra le mani un plico di carte e si smaterializzò appena ebbe voltato le spalle alla scrivania dove sedeva mia madre. Questa mi fece un cenno con una mano, invitandomi ad avvicinare e io non mi feci pregare. L’abbracciai e lei mi scoccò un bacio su una guancia.
«E’ andato tutto bene a scuola, sembri pallida!», disse lei, sistemandomi i capelli dietro le orecchie.
«E’ tutto ok», la rassicurai io.
«Sei tornata un po’ in ritardo oggi, meglio se vai subito nello studio, la tua insegnante ti starà già aspettando». Mi diede un buffetto sulla testa e con una spintina alla schiena mi avviò verso la porta. Una frazione di secondo dopo era già china a esaminare un’altra pratica. Mentre mi dirigevo all’uscita, un po’ delusa per le poche attenzioni, incrociai lo sguardo di mio padre; mi strizzò un occhio e mi mandò un bacio via etere, che io feci finta di acchiappare al volo con una risatina nervosa. Mi sentivo sulla schiena lo sguardo insistente della lamia, che non mi staccava gli occhi di dosso. Era più una sensazione che una certezza, perché non avevo il coraggio di controllare, terrorizzata dall’idea di incrociare nuovamente i suoi occhi.
Appena varcai l’uscio e l’ebbi chiuso dietro le mie spalle, mi sentii una sciocca fifona, ma con una porta a dividermi da lei mi sentii subito immensamente più tranquilla. Tirai un sospiro di sollievo e mi indirizzai verso lo studio, avevo altre due ore di lezione prima del meritato riposo. Sospirai ancora, stavolta di rassegnazione ed entrai nello studio.
Il giorno seguente era domenica, così rimasi a dormire fino a tardi. Quando finalmente in tarda mattinata scesi in cucina, vi trovai i miei genitori intenti a indossare i loro soprabiti.
«Tesoro noi andiamo», disse mio padre, mentre si sistemava il papillon davanti allo specchio. Li guardai perplessa poi dissi:
«Dove state andando?». Si voltarono a guardarmi.
«Te ne sei dimenticata?», chiese mia madre, aggrottando le sopracciglia, «è da più di un mese che ti ricordo in continuazione che oggi abbiamo l’incontro con il supervisore». Era vero, ma me n’ero scordata ugualmente.
«Stiamo via solo per un’oretta», continuò lei, «fai la brava e non togliere il sigillo magico alla porta del nostro ufficio per nessuna ragione».
«Si, lo so, tranquilla», dissi alzando gli occhi. Non era la prima occasione in cui mi lasciavano a casa da sola, ma ogni volta dovevano sempre ricordarmi di non toccare il sigillo attaccato alla maniglia della porta della stanza di “accettazione e transito”, che serviva durante i giorni festivi o la notte, a chiudere il passaggio tra le due dimensioni, aperto appunto nella mia sala, e impedendo la materializzazione degli esseri magici al suo interno. Ogni guardian ha in una stanza della propria abitazione un portale come i miei genitori.
Ricevere sempre gli stessi ammonimenti, mi frustrava un po’. Non ero mica sorda. Anche se in quel frangente, visto che mi ero completamente dimenticata del loro appuntamento, non avevano tutti i torti a ritenere opportuno ricordarmelo nuovamente. Mi salutarono frettolosamente e uscirono di gran carriera. Li osservai dalla finestra salire in macchina, percorrere all’indietro il vialetto d’accesso asfaltato e svoltare in strada, sparendo alla mia vista. Con uno sbadiglio mi girai verso la porta del loro ufficio: la sala di “accettazione e transito”, agganciato alla maniglia c’era un mestolo. Il sigillo per quel fine settimana. Mi scappò una risata, di sicuro per quel giorno non avremmo mangiato minestra. Stiracchiandomi andai in cucina a fare colazione. Mi versai un’abbondante porzione di cereali in una ciotola, li inondai di latte di mandorle e presi a sgranocchiarli di gusto, mentre sfogliavo distrattamente una rivista di giardinaggio di mia madre. Ero quasi a metà della ciotola quando suonò il campanello. Chi poteva essere? Forse i miei avevano dimenticato qualcosa, ma allora perché non entravano con le chiavi? Posai il cucchiaio e andai a controllare attraverso lo spioncino. Sgranai gli occhi. Era Daniele D’este. Non riuscii a trattenere un’esclamazione di sorpresa, tipo gallina strozzata. Mi portai le mani alla bocca come a voler riportare indietro il suono emesso. Chiusi gli occhi e rimasi immobile, sperando non avesse sentito, ma lo sentii schiarirsi la voce dall’altra parte della porta e capì subito che la mia era una speranza vana. Mi pettinai frettolosamente i capelli con le dita e aprii la porta. Subito Daniele mi accolse con uno splendido sorriso, e sentii le mie labbra schiudersi a loro volta per contraccambiarlo. Mi sentivo un po’ inebetita e con le farfalle nello stomaco. Forse era questa la sensazione che i grandi intendevano per innamoramento?
«Ciao, stavo facendo un giro e ho pensato di fermarmi per farti un saluto», disse.
«Grazie», risposi imbarazzata, non sapendo che altro dire.
Restammo per un attimo in silenzio, poi visto che non dicevo niente lui chiese:
«Ehm… posso entrare?».
Accidenti! Se lo avessi fatto entrare i miei genitori mi avrebbero messa in punizione a vita. Rimasi lì a guardarlo imbambolata, indecisa sul da farsi, mentre cercavo di valutare velocemente tutte le opzioni; ma ci stavo impiegando davvero troppo tempo per rispondergli e Daniele iniziava a sembrare perplesso. Alla fine decisi che farlo entrare per qualche minuto non sarebbe stato un dramma. I miei non c’erano. Non lo avrebbero mai saputo. Ammetto che una parte di me gongolava anche un po’ all’idea di infrangere le regole.
«Certo accomodati», dissi, mentre mi scostavo dalla porta per farlo passare. Per una frazione di secondo scorsi sul suo viso un’espressione vittoriosa, ma subito scomparve, sostituita dal suo solito radioso e gentile sorriso, attraversò la soglia e io richiusi la porta dietro di lui. Forse gli piacevo davvero. Era un’esperienza nuova per me, mai nessun ragazzo prima aveva mostrato tanto interesse per me. Beh, mai nessuno in generale. Di solito mi scansavano perché giudicata troppo strana. Ne ero lusingata ed emozionata.
Daniele si guardò intorno:
«Hai una casa molto graziosa», disse.
«Grazie», risposi, «vuoi accomodarti in cucina?», domandai, iniziando a fargli strada. Lui mi seguì, osservando la casa con fare curioso. Ci accomodammo al tavolo, dove mi stava ancora aspettando la ciotola di cereali mezza piena.
«Ti ho interrotta mentre facevi colazione!», osservò lui.
Che maleducata che ero, mi ero seduta senza offrirgli niente. Balzai in piedi e mi diressi al frigorifero, lo aprii e iniziai a valutarne il contenuto. Afferrai un cartone di succo alla pesca e mi girai per proporglielo, ma le parole mi morirono sulle labbra. Daniele non era più seduto al tavolo. Non era più nemmeno in cucina.
«Daniele?», chiamai interdetta, ma non ottenni risposta. Appoggiai il succo di frutta sul bancone, girai intorno all’isola in mezzo alla cucina e mi avviai verso il corridoio che riportava all’ingresso. Forse aveva bisogno di andare in bagno, pensai; ma avevo un brutto presentimento. Un bruttissimo presentimento. Appena girai l’angolo, vidi Daniele davanti alla porta della sala di “accettazione e transito” che protendeva una mano verso il mestolo agganciato alla maniglia.
«NO! FERMO!», gridai.
Lui si bloccò e si girò verso di me sorpreso. Poi afferrò il mestolo e lo staccò dalla maniglia sorridendomi. Accidenti non sapeva cosa aveva fatto. Ma subito mi corressi, lo sapeva, lo sapeva eccome, perché mi guardò con un ghigno crudele sul viso. Aprì la mano nella quale teneva il mestolo e questo cadde rimbalzando sul pavimento con un suono metallico. Ero scioccata. Poi Daniele iniziò al sussultare e il suo corpo a mutare forma. Gli arti gli si accorciarono, la testa si ingrossò e le orecchie si appuntirono. I denti divennero aguzzi e affilati come rasoi. Si strappò i vestiti di dosso mostrando un corpo rachitico, da cui comparvero due grandi ali nere. In pochi secondi si era trasformato in una specie di pipistrello, dagli occhi rossi, luminosi come due fari. Ero spaventata, ma anche amareggiata per essere stata ingannata da quell’essere che si era finto un mio compagno di scuola, e soprattutto interessato ad essere mio amico. Sentii la rabbia montarmi dentro; ma poi vidi la maniglia della porta dello studio dei miei abbassarsi e il terrore ebbe la meglio. Qualcuno si era materializzato attraverso il portale. Restai a guardare la porta schiudersi, paralizzata. Sperai con tutta me stessa che si trattasse di un innocuo folletto. Poi vidi il lungo mantello del colore della notte e il vestito grigio topo. Era la lamia. Non attesi ulteriormente, scattai verso la cucina e mi acquattai dietro l’isola nel centro della stanza, appoggiandomici con la schiena. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia. Mi fossi potuta tramutare in un mobile, in quel momento l’avrei fatto.
«Sei stato bravo piccolo servitore», sentii dire dalla megera, con voce gracchiante, «sarai ricompensato, ora dimmi, dov’è la nostra piccola ospite?».
Mi si bloccò il respiro in gola e il cuore prese a battermi tanto forte, che temetti potessero riuscire a sentirlo anche loro, svelando il mio nascondiglio. Dannazione, a lezione avevo fatto solo un po’ di teoria per quanto riguardava le magie difensive e mai, mai nemmeno un po’ di pratica; quella era riservata per il prossimo anno. Iniziai a piagnucolare e a invocare mentalmente i miei genitori. Quanto ero stata stupida a disobbedirgli. Certo che finire mangiata da una strega, mi pareva comunque una punizione un po’ eccessiva per la mia disobbedienza.
Sentii il mantello della lamia scivolare sul pavimento e le zampette del pipistrello muoversi verso la cucina. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa con cui difendermi, ma in vista c’erano solo un paio di mestoli di legno e il cartone di succo alla pesca.
‘Il succo alla pesca!’, pensai, sgranando gli occhi e sentendomi pervadere dalla speranza. Le streghe evaporano a contatto con l’acqua e di sicuro il succo di frutta ne conteneva una buona percentuale. Se mi fossi sporta per afferrarlo però, mi avrebbero sicuramente vista, e non ero nemmeno certa che le gambe avrebbero collaborato. Al momento mi sentivo rigida come una statua, incapace di muovere un solo muscolo.
«Piccolina vieni fuori», disse la lamia, ormai sulla porta della cucina, «non ti farò alcun male». Si, figuriamoci, pensai.
«Mia signora, perché non si smaterializza. Oramai può andare dove vuole. I genitori della bambina potrebbero tornare a momenti», disse il pipistrello sottovoce con fare servile e spaventato.
«Sciocco, se lascio testimoni i suoi genitori mi daranno la caccia. Se lei sparisce nessuno saprà che sono penetrata illegalmente nel mondo umano, e poi, ho molta fame», rispose lei bisbigliando. Ma io ero abbastanza vicina a loro per sentire cosa dicevano e un tremito mi percorse tutta a quelle parole. Chiusi gli occhi e mi riempii i polmoni. Dovevo agire o sarei stata persa. Guardai il succo alla pesca, risoluta. Mi feci coraggio e contai mentalmente: ‘Uno, due, tre’. Mi lanciai con un balzo verso il cartone di succo, lo afferrai, mi girai verso la megera e glielo scagliai contro. Lei presa alla sprovvista, aveva osservato tutta la scena sorpresa. Ora guardava la confezione piena del liquido per lei mortale, volare in aria, roteare e centrare in pieno la faccia del pipistrello al suo fianco, che cadeva a terra privo di sensi, per finire poi sul pavimento anch’essa, senza aver lasciato uscire una sola goccia del suo contenuto.
Mi sentii defluire tutto il sangue dalla testa. Porca miseria! Mi ero dimenticata di aprire la confezione.
La lamia si girò a guardarmi con un’espressione interrogativa. Poi un sorriso le increspò gli angoli della bocca. Panico, panico, panico, stavo per diventare il suo spuntino. Ormai presa dal terrore, mi misi a correre, cercando di sorpassarla per raggiungere la porta della cucina, così il corridoio, la porta di casa e la salvezza; ma non fu la scelta giusta. Non riuscii ad arrivare nemmeno al corridoio. La megera mi afferrò per un braccio e mi scaraventò sul tavolo. Malgrado l’aspetto da vecchia di mille anni, era molto veloce e molto forte. L’impatto con la tavola fu doloroso e mi lasciò per un attimo intontita. La lamia si chinò verso di me, iniziando ad aprire la bocca. Quella bocca che sapevo sarebbe diventata grande come una caverna, pronta ad ingoiarmi intera. Iniziai a strillare, agitando braccia e gambe, incapace di pensare.
La lamia si fermò di colpo sgranando gli occhi e allargando le narici. Si scostò da me, guardando verso il basso, da dove mi accorsi saliva una spirale di fumo. Un’espressione di stupore le si disegnò sul viso e una frazione di secondo dopo la strega si dissolse in una bianca nuvola di vapore.
Rimasi per un momento sul tavolo, sollevata sui gomiti, fissando il vuoto. Incapace di comprendere il repentino mutamento degli eventi.
Poi mi misi a sedere con le gambe penzoloni. Sul pavimento, oltre al pipistrello svenuto e alla confezione di succo di frutta, stavano miriadi di pezzettini di coccio rosa, mischiati a cereali mollicci e a un liquido biancastro. Mentre mi dimenavo per sfuggire alla megera, o forse proprio quando lei mi aveva gettata sopra il tavolo, la tazza con il resto della mia colazione doveva essersi infranta cadendo a terra. E senza accorgersene la strega aveva infilato i piedi nella pozza, che si andava espandendo, di latte di mandorle.
L’immenso sollievo che provai, si tramutò in un fiume di lacrime. Iniziai a singhiozzare rumorosamente, coprendomi il viso con le mani, ma il mio sfogo fu interrotto da una vocina alla mia destra. Mi girai di colpo allarmata. All’inizio del corridoio che dava sulla sala di “accettazione e transito” stava un folletto.
«Mi scusi, non volevo disturbarla», disse il folletto, «ma ho trovato il portale aperto è mi chiedevo…», si interruppe e guardò alla sua sinistra, verso la porta dell’ufficio dei miei genitori, «…ci chiedevamo, se oggi foste aperti».
Mi alzai dal tavolo, trovandomi un po’ instabile sulle gambe. Mi portai a piccoli passi verso il folletto, che si scostò per farmi passare, guardai oltre l’angolo del corridoio, verso l’ufficio dei miei, e mi si spalancò la bocca dallo shock. Nella stanza c’erano decine e decine di esseri magici: folletti, fatine, goblin, persino un troll.
Un altro folletto uscì trotterellando dalla stanza. «Oh allora c’è qualcuno», disse guardandomi, «senta, non è carino fare aspettare così la gente, come siete male organizzati». Poi guardandosi intorno, «c’è niente da mangiare?», e sgattaiolò in cucina.
Ero allibita, il mio cervello in black out totale. Poi sentii il folletto dire dalla sala da pranzo:
«Ehi, qui c’è un pipistrello sul pavimento. Che strano!», poi il rumore di un’anta che si richiudeva e lo scricchiolio di un pacchetto che veniva aperto, seguito da un rumoroso lavorare di mandibola. Il pensiero del perfido pipistrello, mi fece tornare in me. Afferrai una corda dallo sgabuzzino e tornata in cucina legai saldamente il pipistrello a una sedia; mentre il folletto affamato mi guardava incuriosito, ingozzandosi di patatine.
Appena ebbi terminato l’ultimo nodo vidi la macchina dei miei genitori rientrare nel vialetto di casa, seguita da un’altra vettura. Non sapevo se sentirmi sollevata per il ritorno dei miei o terrorizzata per la tremenda punizione che mi sarei presa; ma dopo l’esperienza che avevo appena vissuto, la reclusione eterna nella mia stanza, mi sarebbe parsa piuttosto un premio.
Sentivo i miei genitori chiacchierare spensierati con i loro ospiti mentre si dirigevano alla porta d’ingresso e infilavano la chiave nella toppa. Una volta entrati si zittirono tutti all’istante. Una coppia di pixie era appena passata davanti a loro diretta verso il bagno. I miei erano accompagnati da un uomo e una donna pressappoco della loro stessa età, e da due bambini: una ragazzina che sembrava più o meno mia coetanea, e un ragazzo di due o tre anni più grande. Li riconobbi subito come guardian.
Entrarono tutti, ammutoliti, chiudendo la porta alle loro spalle. I miei videro il gran trambusto nella sala di “accettazione e transito”, ma proseguirono oltre, senza proferire parola, cercandomi con lo sguardo. Non riesco nemmeno a immaginare cosa pensarono quando finalmente mi individuarono, seduta al tavolo della cucina, con accanto un pipistrello privo di sensi legato alla sedia alla mia sinistra e un folletto che li scrutava mangiando patatine, seduto sull’isola della loro cucina. Mia madre aveva un colorito verdognolo e mio padre pareva stranito.
«Hai fatto un bel casino signorina», disse mia madre, passando a una tonalità rossastra, «poi facciamo i conti». Si diressero verso il loro ufficio, scusandosi con gli ospiti, i quali si offrirono subito di dare una mano. Mentre gli adulti sparivano nella sala di “accettazione e transito” i due ragazzini vennero in cucina e si accomodarono sulle sedie davanti alla mia, con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Ci siamo appena trasferiti qui», esordì la ragazzina, «sembra che ci sia bisogno di più guardian nella zona. Saremo nella stessa scuola».
Non sapevo cosa dire e visto che non aprivo bocca continuò:
«E’ successo anche a me; lo scorso anno. Sono inciampata vicino alla porta e ho fatto cadere il sigillo. I miei erano a una partita di basket di mio fratello».
«Allora tu non sei stata ingannata da un trucco di una lamia per entrare illegalmente nel mondo umano, che ha poi cercato di mangiarti», dissi.
I due mi guardarono con tanto d’occhi, spalancando la bocca. Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia, ora che l’adrenalina era scemata dal mio corpo, mi sentivo sfinita; ma sorrisi alle facce bramose di particolari dei due ragazzi, che presto, già me lo sentivo, sarebbero diventati miei ottimi amici.



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